Giovanni Rossi
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MICRO_MOSSO

 

Milano, 6 Aprile 2022

Una conversazione tra Giovanni Rossi e MICRO_MOSSO

(Maddalena Gitti, Chiara Vignandel e Giulia Zompa)

Io se non facessi qualcosa che ha che fare con il manuale in qualche modo sarei sfollato, passatemi questo termine

È bello, ricorda i terremoti

Quindi ho detto ai miei genitori “Ascoltate, io non so se farò mai l’artista o se lo diventerò, ma finché posso vorrei proseguire gli studi artistici. Poi se da questo effettivamente nascerà il mio lavoro o qualcos’altro non lo so, però vi prego di lasciarmelo fare perché è quello che desidero”. La dimensione artistica è sempre stata estremamente lineare in me, non che la forma d’arte fosse così importante ma che la creatività ci fosse nella mia ontologia di persona

Avevi una consapevolezza sorprendente, eri molto giovane

Sì però era naturale per me. Sarebbe stato un venir meno a me stesso.

E com’è per i tuoi genitori dire “mio figlio è un artista”?

Innanzitutto non so se lo dicono (ride).

No, i miei genitori sono felici. Non sono strettamente legati all’arte, non hanno una spiccata sensibilità verso l’arte, soprattutto contemporanea, però mia mamma ha avuto un’educazione legata alla formazione dei bambini, lo studio Montessori, e quindi nei confronti miei e di mia sorella ci ha sempre lasciati estremamente liberi di scegliere ciò che volevamo. Non ci hanno fatto scegliere una strada predisposta da loro, loro ci hanno supportato indipendentemente dalla scelta, e questo non è scontato.

I miei genitori non capiscono tutto quello che faccio, da un lato non mi interessa nemmeno che lo capiscano e neanche a loro credo che interessi comprendere tutto, ma comunque stare di fronte all’arte, che è sempre un mistero. Quindi per me la cosa più importante è sapere che comunque il loro sguardo non è per forza sempre accondiscendente o comprensivo rispetto a certe mie scelte e azioni, però è lo sguardo di chi si fida della direzione che sto prendendo. E questo è bello.

Detto questo credo di aver preso due cose dalla mia famiglia. È vero che nessuno è legato strettamente all’arte, appassionato d’arte, però mio papà è un grande appassionato di antiquariato e comunque il mio gusto estetico è estremamente influenzato da questo. Da mio papà, quindi tutta l’oggettistica legata al mio lavoro che spesso anche per la ricerca spirituale va a cercare cose legate all’arredamento o comunque a componenti liturgiche, decorative, legate a quell’aspetto dell’antiquariato, quindi la direzione della bellezza l’ho presa da mio papà. Da mia mamma ho preso il contenuto, il cuore, la sensibilità

È bello, dovresti dirgliele queste cose 

Beh, spero che le leggeranno.

Invece per te, tu ti presenti come artista? Cosa fai? Chi sei? “Sono un artista”?

Quando mi dicono “Cosa fai?” è stranissimo, perché tu rispondi… Cioè forse siamo tra i pochi che più che dire “cosa faccio” rispondono “io sono” (un artista). E quello lo sei indipendentemente da ciò che fai. Questo per me è sempre stato un non venire meno a ciò che effettivamente sono.

Sì, sono un artista, mi sto abituando a dirlo anche perché effettivamente quand’è che sei artista? Quand'è che viene riconosciuto? Quando c’è un contesto che inizia a promuovere, custodire e tutelare il tuo lavoro, collezionare? La domanda lì cade. Uno è artista indipendentemente dal fatto che ci sia una certa collettività che lo riconosce come tale, una storicizzazione dell’essere artista o meno, il mio modo di vivere è sempre artistico, indipendentemente che io faccia una pittura o che vada non so, in collina, o vada a pranzo. Io sono artista e non smetto mai di esserlo.

Beh sì, poi non c’è differenza tra arte e vita no? Per l’artista soprattutto

Sì perché poi molto spesso la creazione arriva nei momenti che non sono mai… Parlo per la mia esperienza… La creazione di un’idea avviene spesso in quei contesti, quei luoghi in cui non dovrebbe venire e invece si rende visibile li, no? Quindi magari mentre sei a fare la spesa e ti guardi i Pan di stelle, non sei in studio a pensare e a dire “Ah adesso da questa mia azione pittorica nascerà un contesto, un’indagine”.

Io in studio non vado mai a pensare, vado a lavorare quando so già dove effettivamente voglio indirizzare la mia azione, altrimenti per me è una perdita di tempo. Piuttosto vivo e nella vita incontro poi ciò che fa nascere il lavoro. 

Per questo reputo sia più stimolante andare al cinema, leggere, fare una vacanza…

Beh questo riporta al fatto dell’artista che è una persona che produce ma non deve avere una produttività intesa in senso numerico, quantitativo… Produce quando ha l’idea, è un lavoro particolare. Mi rendo conto della difficoltà di presentarsi all’esterno come artista, non essere compresi, perché è una professione molto diversa rispetto a tutte le altre e questo crea un sacco di difficoltà.

Vuoi parlarci di questo lavoro? “L’ora dell’uomo”?

Parte da un’incubazione un po’ lunga. Quando voi, quando Giulia (Zompa) mi ha proposto di lavorare per Micro_Mosso, all’inizio pensavo “devi lavorare a qualcosa di formidabile” ho vissuto un po’ di ansia da prestazione per questa cosa (sorride). 

Però come spesso accade prima ti liberi dall’idea di dover produrre un’opera e più l’opera arriva da sé, è la realtà che poi ti indirizza. 

Naturalmente non potevo non partire da qualcosa legato al mio repertorio visivo e anche culturale. Quindi c’è stato l’utilizzo di questo ramo di ulivo…

E il caso che fosse aprile!

Beh appunto (ride) questo io ho pensato: l’ha chiesto a me perché è aprile, c’è la Pasqua, chiediamolo a Giovanni!

Io non ci avevo assolutamente pensato! 

C’era una nota di serietà, ma sapevo che non poteva essere solo per questo, certo. Però più che altro l’ho ritenuta una chiamata a lavorare rispetto al mio contesto culturale e al mio lavoro, ancora di più su ciò che accade in quel periodo. Ecco questo sicuramente è stato un forte richiamo. Beh comunque ho preso questo ramo di ulivo, perché il tentativo era quello di lavorare sulla dimensione della pace, c’era già il voler portare la pace in casa in qualche modo

Prima che la guerra scoppiasse, questo va detto 

Sì, pensavo di prendere i rami di ulivo e farli uscire la Domenica delle Palme che è quel momento in cui i rami di ulivo benedetti vengono portati a casa e poi appesi al muro per avere pace nella casa. E quindi c’era questo simbolo legato al contesto che mi ha richiamato subito a lavorare su questa immagine

È estremamente azzeccata la frase di Boetti che dice che le cose nascono dalla necessità e dal caso, e questa opera nasce un po’ dalla necessità e po’ dal caso. Il fatto che avessimo parlato di pace poco prima che scoppiasse una determinata situazione, il fatto che per ragioni esterne la capsule esca il giorno della Domenica delle Palme. Una serie di coincidenze…

Sì, poi io ho mantenuto vivo il confronto. È importante per me, in generale. Avendo capito cosa utilizzare e quale direzione fosse quello giusta, come spesso accade per me quando lavoro, cerco subito il dialogo con una persona esterna che abbia uno sguardo esterno rispetto a me, sul mio lavoro e che mi possa aiutare a lavorare su un fronte che io magari non avevo calcolato. Il rametto doveva poggiare su un banalissimo basamento in legno blu solo per dargli una base, poi ho pensato che se tutto ha un senso anche la base non può essere slegata dal lavoro

E perché sentivi che c’era bisogno di una base per questo ramo di ulivo? 

Non volevo che fosse un soprammobile, aveva bisogno di una struttura che lo elevasse. 

E com’è venuta l’idea di “Guerra e pace”? 

Beh ho pensato che dovesse poggiare su qualcosa che avesse un senso. Intanto poi era iniziato il conflitto in Ucraina, io avevo già lavorato con queste due parole “Dio mio” scritte in giallo su blu e in qualche modo non era un’opera nata per la guerra in Ucraina, però a livello cromatico c’è questo dialogo. Quindi già quel lavoro affrontava questo tema e per il ramo di ulivo mi sono detto “Se deve avere un senso deve poggiare su qualcosa che parli effettivamente di un conflitto”. Cosa parla di un conflitto più di Guerra e pace? Scritto da un russo, in questo momento in cui la Russia subisce la dinamica della cancel culture, i russi brutti e cattivi, va cancellato tutto. Invece no, utilizzo uno tra i più bei romanzi della letteratura russa.

Poi colpisce che l’opera, per essere completa, preveda tutte le sue tre parti. Come la guerra e la pace che non si fanno da soli

Mi piace il fatto che, visto che la pace non si costruisce mai da soli, perché comunque è un dono che una persona riceve, l’opera non sia completa… Cioè vive di una sua incompiutezza, un po’ come l’uomo no? Che si sente sempre mancante di qualcosa che attende che qualcuno gli ridoni, non per colmare il vuoto, ma per sapere che non è solo, per compagnia, per fratellanza quasi… Alla fine anche a te manca qualcosa, e anche a me, allora andiamo insieme, non dico che dopo diventiamo uno, ma ci si arricchisce. Infatti sono tre opere che potenzialmente possono vivere l’una separata dall’altra però sono chiamate all’unità, nessuna delle tre ha senso da sola…

Però se una persona le acquistasse tutte e tre, non potresti comunque unire i tre volumi. Ed è quella la cosa affascinante di questa opera, è un’opera che chiama. Ogni opera chiama l’altra ma riunite non sono la stessa opera. Diventano qualcosa di altro

Sì.

L’arte diventa orizzontale

Da oggi chiunque può essere collezionista del proprio tempo.

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